



Scritto il 4 Febbraio, 2011 | da piccardi | No Comments
Il pen show di Trieste, noto ufficialmente come “Alpa Adria Pen Show” è uno dei più importanti di Italia, ma quest’anno ha anche l’onore e l’onere di aprire le danze per quanto riguarda le mostre nel nostro paese.
Questa la comunicazione ufficiale che mi è arrivata:
Desidero comunicarle, con grande piacere, che la quattordicesima edizione dell’Alpe Adria Penshow avrà luogo il 27 marzo p.v., presso l’albergo NH Hotels a Trieste .
Le allego la locandina.
Ringrazio son d’ora e porgo i più cordiali saluti
Enrico Lena
Presidente Comitato Organizzatore Trieste Scrittura
Al seguent link potete scaricare il manifestino dell’evento allegato alla mail ricevuta:
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Scritto il 2 Febbraio, 2011 | da piccardi | No Comments
La mia sarà un’espressione un po’ “tranchant” per dirla alla francese, ma parlare di morti viventi rende abbastanza bene l’idea di cosa penso di quella serie di marchi di produttori storici riportati in vita da operazioni commerciali di scarso respiro e dubbio gusto.
Negli anni ’60, con l’avvento della penna a sfera e della cultura dell’usa e getta le stilografiche passarono dall’essere per la maggior parte delle persone dallo strumento di scrittura più comune al relitto di un tempo che fu. Questo causò la morte della gran parte dei produttori minori (e anche di qualcuno di quelli maggiori), incapaci di adattarsi al cambiamento. Ed anche i marchi maggiori videro parecchi passaggi di mano e spostamenti degli stabilimenti produttivi.
Quando all’incirca negli anni ’90 la stilografica tornò in auge, sia come oggetto di distinzione che come strumento di scrittura (e se ne riscoprirono i vantaggi) si iniziò ad assistere alla resurrezione di marchi morti da decenni. Così tornarono sul mercato marchi come Conklin e Chilton negli USA, Onoto e Conway Stewart in Inghilterra, Tibaldi ed Ancora in Italia.
Comune alla gran parte di queste operazioni era il tentativo di comprarsi un storia secolare da parte di produttori con nessun tipo di legame con le aziende originali, e cercare di coprire con una patina di storia che gli fornisse un po’ di interesse una produzione per molti versi speculativa e che di qualità proprie spesso aveva ben poco.
In alcuni rari casi ci sono stati dei risultati validi, ma la maggior parte delle volte le operazioni hanno avuto esiti assolutamente deludenti. Fra tutte quelle ho visto direttamente, le uniche penne che non sfigurano totalemente nei confronti di quelle da cui prendono ispirazione restano le prime riedizioni varate col redivivo marchio Tibaldi (non le terribili pacchianate che producono adesso…), che pur restando delle riproduzioni dei modelli storici della ditta, anche se non erano originali erano comunque realizzate in bellissima celluloide e con una qualità costruttiva altissima.
In tutti gli altri casi si è oscillato fra la produzione di penne assolutamente insignificanti, quella di edizioni limitate dal costo proibitivo e dal significato nullo, fino alla produzione di oggetti inverosimilmente costosi e pacchiani, il cui solo senso sembra essere quello di dare nell’occhio e non di scrivere.
Alcune di queste operazioni sembrano aver esaurito la loro scarsa forza propulsiva. Ad esempio il sito della nuova Chilton è irraggiungibile, ed è notizia recente che la nuova Conway Stewart è stata posta in amministrazione controllata.
Alla fine purtroppo il risultato è stato quasi sempre lo stesso: quello di andare a scomodare una tradizione gloriosa per risultati deludenti, contraddittori sul piano stilistico (nell’oscillare fra il pacchiano e la copia) e totalmente insignificanti sul piano tecnico, dove il caricamento a cartuccia brilla nella sua banalità in penne costose, anche nel caso di marche (vedi ad esempio la Onoto) distintesi proprio grazie alla innovazione creata in questo campo.
Per questo la mia impressione di fronte a queste operazioni commerciali è quella dei morti viventi: si sono sfruttati senza ritegno nomi legati ad una storia gloriosa a cui si sarebbe reso un miglior servizio lasciandoli riposare in pace senza scomodarli per tentare di dare un significato altrimenti assente a produzioni di dubbio gusto e di impatto assolutamente trascurabile.
Alla fine mi resta un grande punto interrogativo: che senso ha comprare delle penne recenti coperte con un marchio di grande storia, quando queste hanno costi assolutamente improponibili rispetto a penne ordinarie equivalenti, e soprattutto quando spesso per lo stesso prezzo (o anche a prezzi inferiori) si può ottenere un modello antico dello stesso marchio, che nel 90% dei casi scrive meglio, nel 99.9% dei casi è più bello e nel 100% dei casi non perde valore?
Scritto il 28 Gennaio, 2011 | da piccardi | No Comments
La penna che è stata presa in esame in questa recensione, il modello 52 della Waterman, è uno dei grandi classici della storia della stilografica. Si tratta di una delle penne più rilevanti del proprio periodo, e può essere condiderata parte della storia della stilografica. A quell’epoca (fine degli anni ’10 ed inizio degli anni ’20) infatti la Waterman era leader di mercato a livello mondiale e la 52 era probabilmente il suo modello più diffuso.
Benché questo tipo di penna esistesse fin dal 1915, si può parlare di 52 solo a partire dal 1917, quando la Waterman riorganizzò i criteri di identificazione dei suoi numerosisimi modelli adottando un sistema di numerazione basato su tre cifre: le centinaia indicavano il tipo di decorazione (rivestita in argento, in oro, con bande, ecc.), le decine il tipo di caricamento e le unità la misura del pennino (e della penna).
Abbiamo detto tre cifre, ma si potrà obiettare che il numero 52 ne contiene solo due. Questo avviene perché quando non era applicata nessuna decorazione specifica (e si aveva a che fare con il modello base in ebanite) la colonna delle centinaia, indicante il tipo di decorazione, era assente come la decorazione stessa, e venivano solo le altre due.
La cifra delle decine, il 5, indicava il nuovo (per l’epoca) caricamento a levetta, introdotto sul mercato da Sheaffer nel 1912, e copiato (anche se con qualche modifica marginale) dalla Waterman nel 1915. La misura più comune per queste penne era quella del pennino n.2, pertanto la penna veniva ad assumere (stampigliato sul fondello per un facile riconoscimento) il numero 52.
Benché sia facile porre un limite superiore all’età della penna (è stata sicuramente prodotta dopo il 1917, per cui non può avere più di 93 anni) non è altrettanto facile porvi un limite inferiore, dato che la Waterman ha mantenuto in produzione questo modello per lunghissimo tempo, anche quando era completamente passato di moda, arrivando fino agli anni ’40.
Nel caso specifico alcune caratteristiche (nessuna iscrizione in orizzontale sul fondello della penna, e la clip riporta ancora la dicitura Clip Cap) indicano comunque una produzione risalente agli anni ’20, cosa che comporta un’età della penna stimabile intorno agli 80 anni.
La penna è realizzata nel materiale più in voga in quel periodo, l’ebanite. La celluloide farà la sua apparizione nel 1920 circa, ma la sua diffusione fra i grandi produttori americani avverrà alla metà degli anni ’20 e ancora più tardi per la Waterman. Lo stile della penna è quello tipico dell’epoca, una “flat top” (forma cilindrica con estremità piatte) con il corpo decorato tramite cesellature ondulate.
La Waterman 52, pur essendo un modello storico di grande successo, e anzi proprio per questo, è tutt’altro che rara. Quella in questione è stata acquistata per poche decine di dollari su Ebay, e restaurata direttamente da me, operazione relativamente semplice, trattandosi di un caricamento a levetta che necessitava solo della sostituzione del sacchetto in gomma interno.
La penna è stata sicuramente utilizzata a lungo dal suo possessore originale, come testimoniato dalla relativa usura delle cesellature del corpo, che pur restando visibili, sono nettamente meno marcate di quelle sul cappuccio. La penna comunque è in condizioni generali discrete, senza rotture e con qualche leggero segno di denti sul fondo (l’abitudine di tenere la penna in bocca pare essere comune a livello internazionale).
Il pregio maggiore di questo esemplare è comunque il suo pennino, uno straordinario fine flessibile, e flessibile per davvero, come lo erano i migliori pennini di quel tempo. Nella immagine precedente si è riportato un test di scrittura (inchiostro seppia Waterman Havane Ink, carta Pignastyl), dove si può apprezzare, nonostante le mie scarse capacità calligrafiche, la straordinaria estensione della variazione del tratto di cui la penna è capace. Dovendo dargli un voto non potrei scendere al di sotto del 10 e lode.
In generale il flusso della penna è abbondante, e non si sono mai avuti problemi di avvio o di ri-partenza nella scrittura. L’unico difetto da questo punto di vista (anche se nell’uso alla fine non si presenta) è che non scrive se fatta semplicemente strisciare sul foglio appoggiandola nell’incavo fra le dita. Ma a differenza di altre penne che presentano lo stesso comportamento, la cosa non accade mai quando la si impugna normalmente; a quanto pare in quel caso la semplice pressione aggiuntiva costituita dal peso dell’indice sopra la penna risulta sufficiente a farla scrivere immediatamente.
L’unico difetto reale nell’uso quotidiano della penna è che, per la sua capacità di erogare un flusso molto ampio, presenta un pennino abbastanza “umido”, essenziale per poter garantire la variazione di tratto di cui è capace. Questo però comporta anche una certa tendenza all’accumulo di inchiostro sull’alimentatore, che essendo relativamente primitivo (è piatto e non dotato di tutte le alette e le camere di compensazione che vennero adottate negli anni seguenti) non riesce a trattenerlo a sufficienza con la conseguenza di lasciare residui nel cappuccio, che poi si ritrovano sul pennino stesso.
Non lo si può considerare un difetto costruttivo della penna in quanto tale, dato che quando venne costruita la tecnologia che consente di limitare questo problema non era ancora stata sviluppata adeguatamente, per cui nel caso specifico questo comportamento è normale, ma occorre sapersi adattare, se la si vuole misurare sui canoni di una penna moderna. Nel mio caso i vantaggi nel piacere della scrittura sovrastano ampiamente il prezzo di avere un pennino macchiato di inchiostro cui dare una periodica ripulita …
In conclusione questa Waterman 52 si dimostra, nonostante gli oltre 80 anni di età, una penna ancora perfettamente funzionale. Come dicevo all’inizio non è un modello raro, e sarà sicuramente snobbata dal classico collezionista spocchioso che cerca solo il pezzo unico, ma dal mio punto di vista è un esemplare che parla della storia della stilografica, ed una penna come questa, per quanto ordinaria, non può mancare dalla collezione di un vero appassionato.
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Scritto il 24 Gennaio, 2011 | da piccardi | 1 Comment
Frequentando forum e siti di discussione anglosassoni sono venuto a conoscenza della notizia della messa in amministrazione controllata (se ho capito bene il vocabolario amministrativo inglese, di cui sono assai poco esperto) della Conway Stewart.
Il marchio era quello di uno dei tre principali produttori di penne stilografiche inglesi (gli altri due sono Swan e Onoto). Le attività ebbero inizio nel 1905 e terminarono con il fallimento dell’azienda nel 1975.
Nella sua storia l’azienda si distinse per la produzione di penne economiche di buona qualità, puntando alla fascia bassa del mercato. Fu anche uno dei primi produttori a ricorrere alla celluloide e a produrre penne colorate in galalite. Ma come la gran parte dei produttori non riuscì a sopravvivere all’avvento della penna a sfera usa e getta e fallì definitivamente nel 1975.
Nel 1998 però, come era già avvenuto e come sarebbe successo anche in seguito con altri, il marchio venne riportato in vita da una nuova azienda per la produzione di penne di lusso. Non ho mai avuto in mano una delle loro penne (un’altra costante della riproposizione di questi marchi è una distribuzione piuttosto ferraginosa) e non posso giudicare se non dalle foto, ma sembrano imitazioni dei modelli storici riproposte a costi proibitivi.
Personalmente i risultati di queste operazioni non mi hanno mai convinto molto, ma in questo caso si è arrivati davvero al massimo della contraddizione, un marchio nato per produrre la penna a basso prezzo accessibile a tutti trasformato in un brand di lusso. Non mi stupisco che i risultati siano stati deludenti.
Scritto il 22 Gennaio, 2011 | da piccardi | 1 Comment
Nel girellare in libreria stasera mi sono imbattuto in un bel librone delle edizioni Gribaudo, dal titolo “Il grande libro delle penne“, una edizione multilingue (italiano, francese e inglese) con a tema il mondo delle penne, ma fornito di una corposa introduzione storica sulla scrittura, a partire dagli egizi fino ai giorni nostri.
Dal punto di vista della realizzazione si tratta di una edizione rilegata con carta satinata e piena di belle fotografie, e di notevoli dimensioni (quasi 500 pagine), ancorché queste si riflettessero in un prezzo di copertina tutt’altro che trascurabile di 60 euro.
Non posso farne una vera recensione perché l’averlo sfogliato per 10 minuti non mi rende in grado di dare una valutazione completa, però anche questo breve esame è stato sufficiente per rilevare una magagna che mi fa sorgere forti dubbi sulla competenza degli autori.
Il libro infatti si aggiunge alla folta schiera dei propalatori della nota bufala della macchia di inchiostro, che ho già avuto modo di affrontare in un precedente articolo, che viene riproposta pari pari nella sezione che affronta la nascita della penna stilografica.
Se fino a qualche anno fa poteva anche essere comprensibile un errore simile, oggi non lo è più dato che le informazioni riportate da David Nishimura relative alla falsità del mito sono ormai disponibili da anni. E dato che nella prefazione dicono di essersi avvalsi della consulenza ad un esperto di storia (di cui non ricordo il nome) il difetto mi pare ancora più grave.
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Scritto il 19 Gennaio, 2011 | da piccardi | No Comments
In questo caso non si tratta di una bufala in grande stile, quanto piuttosto dell’ignoranza (volendo applicare il rasoio di Hanlon per scartare la malafede) di un venditore, che è emersa in questa discussione sul forum di FountainPen.it.
In questo caso un sito di rivendita di stilografiche on-line, riporta nella pagina dedicata alle Aurora Optima recenti un paragrafo la cui traduzione approssimativa è la seguente:
La celluloide è da tempo riconosciuta come uno dei materiali più belli per una penna. Considerata la prima vera plastica, la celluloide ha una trasparenza e profondità uniche, e da una sensazione diversa da quella di altre materie plastiche. La Aurora ha avuto una lunga storia con la celluloide, che inizia con la serie Internazionale nel 1929, che è stata sviluppata per competere nel mercato mondiale in rapida crescita di quel periodo. Oggi queste penne in celluloide contemporanee continuano la tradizione di Aurora.
Tralascio il fatto abbastanza ovvio che le penne mostrate nella pagina non sono in celluloide ma in normale resina plastica, cosa che chiunque abbia visto una penna di vera celluloide probabilmente già può indovinare anche solo guardando le foto, e verificare senza ombra di dubbio prendendone in mano una.
In fondo le bufale sui materiali di cui sono effettivamente fatte le penne sono relativamente facili da smentire, basta una fare verifica diretta. Va detto comunque che l’Aurora come azienda non si sogna neanche di parlare di celluloide per le sue penne, e, almeno per quanto riguarda il contenuto attuale del suo sito, parla in maniera assolutamente corretta di resina.
Quello che è meno facile da smentire (ma nel caso neanche tanto) è invece la bufala storica, dove la verifica è sempre un pelino indiretta. La panzana nel caso risiede nell’affermazione che la storia dell’uso della celluloide da parte dell’Aurora ha inizio con il modello Internazionale nel 1929.
In questo caso l’affermazione è facilmente smentibile dato che esistono ampie testimonianze del fatto che l’introduzione della celluloide nella produzione dell’Aurora sia avvenuta con il precedente modello Duplex. Nella foto soprastante si sono riportate due Duplex della produzione iniziale in ebanite.
A partire all’incirca dalla metà degli anni ’20 (non conosco una data precisa) l’Aurora ha iniziato a produrre lo stesso modello in cellulloide, come testimoniato dalle altre due fotografie riportate, quella immediatamente sopra e quella sotto questo testo.
A questo punto mi si potrebbe obiettare che non ho dimostrato che la Duplex è stata prodotta davvero prima della Internazionale… Beh, su questo temo vi dobbiate fidare della mia parola o cercare evidenze da soli, ma troverete difficilmente qualcuno che possa sostenere il contrario…
La conclusione è … attenti alle affermazioni che si trovano sui siti, specie se son quelle fatte da venditori. Nel caso forse per l’acquirente è più dannosa la panzana sul materiale (che è quasi una truffa) ma dal mio punto di vista di appassionato della storia della stilografica (con scarso interesse verso una penna moderna) avere un sito che contribuisce a diffondere informazioni sbagliate è molto più deleterio…
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Scritto il 11 Gennaio, 2011 | da piccardi | 1 Comment
Con un po’ di ritardo rispetto a quanto promesso nel resoconto dell’evento, sono finalmente riuscito a mettere insieme una recensione della mia ultima acquisizione, effettuata in occasione dello scorso Pen Show di Bologna.
Si tratta di una penna poco comune di un produttore poco comune. Per fortuna un venditore ne aveva un esemplare, che ho dovuto contrattare a caro prezzo (in effetti si tratta del modello di dimensioni maggiori), potendo contare solo sul fatto che difficilmente avrebbe potuto trovare qualcun altro a cui venderla…
Al solito le mia capacità fotografiche sono scarse, ma spero che la serie di foto che seguono sia sufficiente ad illustrare in maniera adeguata le caratteristiche di questa penna, una Chilton Long Island n. 27.
La Chilton è uno di quei produttori americani “secondari”, spesso assolutamente ignoti non solo al grande pubblico, ma anche al collezionista medio (specie a quello italiano). L’azienda produceva penne di assoluta qualità che non avevano nulla da invidiare, anzi per moltissimi aspetti erano nettamente superiori, a quelle delle marche più note.
La Chilton ha una storia affascinante e nasce dalle attività di Seth Chilton Crocker, figlio di Seth Sears Crocker, uno dei pionieri della produzione di stilografiche negli Stati Uniti e produttore delle penne Crocker. La caratteristica distintiva delle penne prodotte da Seth Chilton Crocker era il loro particolare sistema di riempimento, evoluzione dell’assai scomodo caricamento a soffio ideato dal padre.
Si tratta in sostanza di un efficiente e semplice sistema di riempimento a depressione: il corpo della penna è diviso in due cilindri (l’interno in metallo sottile, l’esterno che costituisce il corpo della penna) che scorrono a tenuta uno sull’altro con il fondello dotato di un foro (si è riportato nella figura sottostante lo schema della prima versione del caricamento, tratto dal brevetto originale americano).
Il fondello consente di far scorrere i due cilindri estraendone uno (nel caso della penna in questione, che usa la seconda versione del sistema, diversa da quella illustrata, quello interno). A questo punto per caricare la penna basta riportare in posizione il cilindro avendo cura di tenere chiuso con un dito il foro sul fondello. Questo creerà una compressione sul sacchetto in gomma interno, che si riespanderà, caricando l’inchiostro, non appena si lascerà aperto il foro sul fondello.
Il sistema è meccanicamente molto semplice e robusto, non necessita del meccanismo della levetta, quindi consente di usare sacchetti di gomma più capienti, e funziona ancora oggi meravigliosamente bene. Lo stesso principio, con qualche variazione nella realizzazione, verrà usato nel 1949 dalla Sheaffer per il suo Touchdown, con ben 20 anni di ritardo.
La penna in questione è un modello della produzione effettuata a Long Island (la sede originale della ditta era Boston). Il trasferimento avvenne all’incirca nel 1926, ma lo stile della penna, che risente delle linee affusolate lanciate dalla Balance della Sheaffer nel 1929, indica una creazione intorno agli anni ’30 (le informazioni disponibili sulla Chilton non sono molte e le datazioni risultano in genere piuttosto incerte).
La penna in questione è il modello marchiato 27 (il numero è sempre impresso sul fondello) realizzato in celluloide verde giada. Si tratta del modello di dimensioni maggiori della produzione di quel periodo, lungo 13 cm e largo 1,2 cm sul corpo ed 1,4 sul cappuccio. Quest’ultimo inoltre è dotato della peculiare clip a molla brevettata dall’azienda, che impedisce lo svitamento del cappuccio quando questa viene rialzata.
La penna è in ottime condizioni anche se la celluloide presenta presenta una certa discolorazione, praticamente inevitabile con questo colore, che comunque non è particolarmente grave e neanche troppo estesa. Il pennino, in oro 14 carati, è quello originale, marcato Chilton Pen, si tratta di un pennino semirigido di tratto fine con una buona scorrevolezza.
Si può classificare il pennino come semirigido in quanto esso, pur non essendo molto flessibile, riesce ugualmente con un po’ di pressione ad esprimere una certa variazione del tratto, come si può notare dall’esempio di scrittura riportato qui sopra. La scrittura risulta comunque, anche senza premere, piacevole e precisa.
Si tratta quindi di una penna che per l’epoca era estremamente avanzata sia in termini tecnici che qualitativi. Il grande errore della Chilton fu purtroppo quello di concentrarsi sulla qualità piuttosto che sulla comunicazione, per cui le sue penne vennero pubblicizzate poco e principalmente solo nell’area orientale degli Stati Uniti, con la conseguenza di avere una scarsa diffusione.
Questo portò ad un declino progressivo delle sorti dell’azienda che non riuscì mai a sfondare sul mercato ed ottenere successi di vendita proporzionati ai meriti delle sue penne, cosa che finì col portarla alla chiusura all’inizio degli anni ’40, lasciandoci però con alcune delle migliori stilografiche mai prodotte in quel periodo.
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Scritto il 3 Gennaio, 2011 | da piccardi | 3 Comments
A frequentare il mondo delle penne stilografiche capita alle volte di trovarsi di fronte ad alcune richieste che, per quanto si voglia esser gentili, è difficile evitare di classificare nel campo delle fisime…
Anche se capisco la pignoleria, perché sono il primo ad applicarla, ritengo che a tutto ci sia un limite e che in certi casi, come questo, si tenda a superarlo.
Mi è capitato infatti di trovarmi di fronte al caso di una persona che si lamentava del fatto che la sua penna, che pure scriveva benissimo, senza problemi di flusso o di mancato avvio, presentava però il disastroso difetto di un pennino sulle cui punte si formavano sbavature di inchiostro in corrispondenza della fessura fra le due ali.
Non sto parlando dello sgocciolamento che si può avere in caso di flusso eccessivo o di perdita d’aria dal serbatoio, e neanche delle gocce di inchiostro che si possono trovare sul pennino quando la penna non tiene perfettamente e nel cappuccio si accumulano i residui di inchiostro che poi possono passare sul pennino.
In questo caso si avrebbero davvero dei difetti di funzionamento, ma qui si sta parlando di quelle semplici sbavature che si formano sulla fessura quando si scrive con una penna che abbia un flusso un minimo regolare.
Sarà che io sono abituato alle penne antiche, e che mi piacciono le penne che scrivono bene e con continuità, per cui ho sempre ritenuto il fatto che con l’uso l’inchiostro tenda ad espandersi leggermente dalla fessura come normale, dato che è da lì che esso deve passare per raggiungere la punta del pennino.
Nessuna delle penne che uso regolarmente (comprese le nuove) è esente dal “problema”, trovo pertanto assolutamente ordinario che vi siano queste sbavature, segno appunto che si ha un flusso corretto. Si potrà argomentare che sono antiestetiche… Forse sì, ma le penne che non le presentano a me han sempre presentato altri problemi, ben peggiori, con difetti di flusso, scrittura che non si avvia o che si interrompe.
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Scritto il 29 Dicembre, 2010 | da piccardi | 1 Comment
Una delle fonti più interessanti per ricostruire la storia della stilografica è quella fornita dalla pubblicità fatte dai produttori, che spesso sono l’unico riferimento che consente di ottenere una data relativa ad un qualche modello.
Nel riordinare le mie scansioni di pubblicità antiche (in genere, per migliorarne la definizione, faccio un po’ di fotoritocco prima di pubblicarle sul Wiki) mi sono accorto che una data non tornava con quanto mi risultava fino ad allora.
La pubblicità in questione è quella riportata qui sopra. La piccola scoperta sta nel fatto che almeno per quanto viene riportato dalle varie fonti disponibili (sia nell’esaustivo sito di Richard Binder, che negli articoli di Jim Mamoulides su PenHero), l’introduzione del nuovo sistema di caricamento a siringa rovesciata da parte della Sheaffer con la sottomarca Vacuum-Fil era fatto risalire al 1934.
Questo permetteva di concludere che si trattava di una risposta all’ingresso sul mercato nell’anno precedente, della Vacumatic della Parker. In realtà il sistema pare essere quasi contemporaneo (anche se la Parker aveva iniziato i test di mercato per la sua Vacuum Filler nel 1932) ed indica come in realtà entrambe le aziende avessero probabilmente in ponte da tempo una risposta alla penna a pompetta (antesignano delle penne con corpo trasparente) commercializzata dalla Postal fin dal 1925.
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Scritto il 23 Dicembre, 2010 | da piccardi | 9 Comments
Non potendo recensire la nuova Pelikan M205 Duo, il cui ultimo esemplare disponibile alla Casa della Stilografica (che si ringrazia per aver fornito la foto sottostante) è stato venduto sotto i miei occhi, mi limiterò a trattare del solo inchiostro, aspettando pazientemente che la penna rientri (pare la Pelikan non ne avesse previsto il successo e sia rimasta indietro rispetto alla richieste).
La caratteristica particolare di questo inchiostro è che, come riportato nella confezione, si tratta di un inchiostro evidenziatore, caratteristica praticamente unica per un inchiostro stilografico. Unico colore disponibile, almeno al momento, il giallo.
Benché io appartenga a quella corrente di pensiero che considera l’uso di sottolineature ed evidenziatore su un libro un sintomo di barbara violenza (beh, diciamo più semplicemente che trovo che la pratica li rovini per un successivo uso altrui, per cui non la apprezzo per niente), esistono altri casi in cui l’uso di un evindenziatore mi risulta utile (per liste, lettere, ecc.) per cui la possibilità di poterlo usare con una stilografica mi ha attratto immediatamente ed ho comprato all’istante una boccetta dello stesso.
Per fare una prova di utilizzo ho scelto uno dei casi più difficili, usandolo per l’evidenziazione di un testo scritto con un’altra stilografica ed con un inchiostro diverso (in questo caso un seppia Havane Ink della Waterman).
La penna usata per l’inchiostro è una Pilot Custom 94 con pennino tagliato e flusso molto copioso. La carta usata proviene da un blocco Bristol Blasetti. Nonostante la scansione non renda minimamente l’effetto di fluorescenza del colore giallo, che qui è praticamente scomparso, ma assolutamente evidente nell’originale, come si può notare le sottolineature sono efficaci e l’inchiostro risulta ben trasparente e molto evidente anche nel riempimento dei quadretti.
Sono rimasto anche piacevolmente stupito, nonostante l’uso molto brutale (vari passaggi con flusso abbondante) sopra ad una scrittura relativamente fresca, dalla ridotta dispersione causata sulla scrittura precedente, che era stata effettuata non più di una mezz’ora prima.
In conclusione devo riconoscere, nonostante un po’ di scetticismo iniziale, che questo inchiostro svolge il suo mestiere di evidenziatore in maniera egregia, senza coprire le scritte, e che quando usato su una normale stampa non presente alcuna diffusione del tratto sottostante e si comporta sempre in maniera più che adeguata.
L’unico dubbio che può restare è riguardo la sua persistenza, comunque meno importante, per il tipo di uso, rispetto ad un inchiostro ordinario. Questa comunque si potrà verificare solo su tempi molto più lunghi di quelli che possono essere coperti da questa recensione.
L’unica preoccupazione è invece riguardo la stabilità in termini di eventuali depositi, discriminante per capirne la possibilità di utilizzo su penne antiche, cosa che per ora non mi sono arrischiato a fare, usando una penna moderna. Ma anche questo si potrà vedere soltanto col passare del tempo.
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