Penciclopedia

Se la penna vi interessa più della spada

Stantuffo o converter “prigioniero” ?

Scritto il 13 Agosto, 2019 | da | No Comments

Un numero sempre crescente di penne stilografiche di fascia alta, anche molto alta, vengono proposte con caricamento a stantuffo, ma andando ad analizzare come questo viene realizzato, si scopre in un gran numero di casi che si tratta di quello che fra gli appassionati viene chiamato un po’ dispregiativamente un “converter prigioniero” (o “captive converter“).

Il problema sta nel fatto che non esiste una definizione universale, o codificata in un qualche disciplinare, di cosa sia un caricamento a stantuffo. In genere quella che gran parte degli appassionati usano, e che si aspettano quando di parla di questo tipo di caricamento, è l’uso di un meccanismo azionato da un fondello rotante, che comporta lo spostamento di un pistone per caricare la penna, usando il corpo della stessa come serbatoio.

Secondo questa definizione l’uso di un “captive converter“, cioè di un meccanismo completamente separato montato sulla sezione, e su cui poi sopra viene costruito il corpo della penna, non è propriamente un caricamento a stantuffo e questo porta spesso, nelle discussioni degli appassionati, a considerazioni e giudizi molto aspri nei confronti di chi lo usa.

Ci sono però varie buone ragioni tecniche per non usare direttamente il corpo della penna come serbatoio, cosa che porta poi all’uso del cosiddetto “captive converter“.

La prima ragione è la riduzione della capienza, una cosa che può sembrare strana visto che per un qualche motivo è invalso il mito che le penne a stantuffo contengano più inchiostro, quando ben poche di quelle oggi in commercio superano la capienza di una cartuccia lunga.

Questa della scarsa capacità (della produzione attuale rispetto alle stilografiche antiche) è una caratteristica che hanno quasi tutte le penne recenti, che difficilmente contengono la quantità di inchiostro che andava sulle antiche.

Le cartucce hanno infatti un grande vantaggio, c’è una quantità limitata di inchiostro, con poca aria dietro l’inchiostro che l’alimentatore compensa con relativa facilità. Con le capienze che avevano le stilografiche di una volta compensare il maggior volume di aria diventa parecchio complicato, e con gli inchiostri iperscorrevoli di oggi diventa facile avere fuoriuscite, specie se le penne vengono sballottolate a giro, ed agli utenti trovarsi l’inchiostro nel cappuccio o altrove non piace troppo.

Per cui alla fine anche il più capiente degli stantuffi odierni non arriva a superare la capienza di due cartucce lunghe ed in genere vengono prodotte penne che per lo più hanno una capienza di carica di poco superiore al millilitro, riducendo la sezione del serbatoio. Che lo si faccia facendo una sezione interna minore, saldando fra loro due tubi, o utilizzando un “captive converter” il risultato in termini di capienza è sempre lo stesso.

La seconda ragione del “captive converter” è quella di evitare il contatto dell’inchiostro con il materiale “pregiato” del corpo della penna, che potrebbe reagire male. E sul quale poi ci si può sbizzarrire a piacere senza doversi preoccupare della resistenza all’inchiostro o della discolorazione.

Per entrambe le ragioni partire da un “captive converter” intorno a cui costruire la penna semplifica notevolmente la produzione. Sorge allora la domanda del perché non usare direttamente un converter ordinario invece di ricorrere al “captive converter“?

Qui ci sono due fattori: il primo è quello della percezione, per cui una penna stilografica con il meccanismo di caricamento integrato sembra avere più di valore rispetto ad una dotata soltanto di cartuccia/converter. Ma confrontando il costo di un CON 70 (un converter) e quello di una Dollar 717 (una penna a stantuffo, nella forma “tradizionale”) non sembra proprio che questo maggior valore intrinseco ci sia davvero (il primo costa almeno il doppio della seconda). Resta il fatto che questa percezione di maggior valore è molto diffusa e molti collezionisti considerano l’uso delle cartucce (e di un converter) come un indice di minor valore della penna.

Il secondo fattore è che con un “captive converter” si possono avere dimensioni, materiali e qualità superiori a quelle di un converter ordinario, potendo questo essere eventualmente più robusto non dovendo gestire la problematica dell’aggancio/sgancio dalla sezione e l’intercambiabilità con le cartucce.

Come esempio di questo si possono considerare ad esempio la gran parte degli stantuffi della Delta, che erano “captive converter” ma realizzati con un buon meccanismo con meccanica in  metallo, e dotati di protezione contro la forzatura della rotazione a fine corsa.

Resta il fatto che l’uso del “captive converter“, continua a creare discussioni animate ed aspre critiche tutte le volte che si scopre una penna proclamata essere con caricamento a stantuffo che lo usa.

Il punto è che la distinzione è ben chiara fra i collezionisti e gli appassionati, ma la scelta di usare come base della stessa il fatto che sia usato il corpo come serbatoio è comunque una scelta arbitraria, che fra i non appassionati potrebbe anche essere considerata una pura fisima. Inoltre in certi casi la distinzione è labile, anche la Pelikan 100 (la prima penna a stantuffo) aveva una “binde” a formare la parte decorativa esterna del corpo ed anche le Pelikan recenti (che restano un riferimento per le penne a stantuffo) hanno un corpo costituito da un doppio tubo.

Per quanto la cosa non possa piacere agli appassionati le aziende fanno i loro interessi e parlano di caricamento a stantuffo perché la penna si carica con la rotazione di un fondello che mette in azione il meccanismo di un pistone per aspirare l’inchiostro, sorvolando su quale parte della penna costituisca il serbatoio su cui scorre quest’ultimo. Non stanno dicendo una bugia, stanno volutamente usando (perché ovviamente gli conviene) una definizione diversa da quella in voga fra gli appassionati.

Non credo si possa in questo caso parlare di truffa, ma di mancanza di trasparenza si, perché questa è una descrizione generica che lascia una ambiguità e non chiarisce la differenza su come il suddetto caricamento viene realizzato. Ed è questo quello che non va bene, anche se nella realtà un “captive converter” non è di valore o tecnicamente inferiore (o superiore).

Siamo infatti di fronte ad una questione di percezione del valore, dal mio punto di vista assai poco fondata, ma questo non conta. Ma dato che nei prodotti di lusso la percezione è buona parte di quel che fa il prezzo, è pieno diritto di un appassionato chiedere chiarezza e sapere come è fatto il proprio caricamento a stantuffo. Ed è opportuno dare merito a chi questa chiarezza ce l’ha, e criticare chi invece non ce l’ha.

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